Un ponte che unisce…

Ieri sera guardavo insieme a mio figlio un programma su Focus, una delle televisioni più intelligenti di questi ultimi anni.

Si trattava di “Extreme Engineering” (dal format ormai consolidato di Discovery Channel e DMax, meglio conosciuto in Italia come “Megacostruzioni”, in cui l’architetto Danny Forster gira il mondo spiegando (a volte un po’ a modo suo…ma in modo accattivante per i bambini e i ragazzi) come vengono realizzate grandi opere di ingegneria.

Il protagonista di ieri sera era il ponte Ada Bridge a Belgrado, in Serbia, in un report dal cantiere del 2011 e in cui si è vista la fine della costruzione del pilastro che sostiene gli stralli e che è oggi il più alto pilastro singolo del mondo.

A prescindere dai record e dal report di cantiere, sicuramente interessante ma che nulla aggiunge – se non lo stupore delle grandi dimensioni – al background di un tecnico che opera tutti i giorni nel settore, mi hanno colpito alcune riflessioni e interviste che il simpatico presentatore ha inserito nel suo reportage.

Siamo a Belgrado, la capitale della attuale Serbia ed ex capitale di quella Unione delle Repubbliche Socialiste Jugoslave (ex Jugoslavia) che è stata imposta agli abitanti dei Balcani alla fine della Seconda Guerra Mondiale dal maresciallo Tito e benedetta dalla allora Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Quel ponte in particolare ha risolto un nodo molto importante per la logistica della città e per i collegamenti stradali fra la Serbia e il profondo est Europa. A oggi l’opera è terminata ma la cosa che più colpiva di quel cantiere – oltre alla mole dell’opera che è diventata l’icona naturale della Serbia di oggi – erano le nazionalità di coloro che vi lavoravano: sicuramente serbi, ma anche croati, sloveni, montenegrini e anche molti…moltissimo bosniaci.

Mi hanno colpito le parole di un operaio bosniaco, specializzato in opere metalliche, che ha dichiarato di aver avuto paura quando aveva saputo di dover lavorare a Belgrado per conto della sua azienda. Ha avuto paura quando per la prima volta aveva visto in cantiere tutti quegli operai appartenenti a nazioni che fino a pochi anni prima si erano combattute in modo sanguinario aprendo una ferita di cui tutta l’Europa dovrebbe ancora oggi vergognarsi.

Ma la paura era scomparsa dopo i primi giorni di lavoro…aveva capito che anche gli altri avevano paura di lui ma che tutti erano lì solo per un motivo: lavorare in pace, portare prosperità, ricostruire una città in cui le ferite della guerra sono ancora visibili.

Lui non era mai stato a Belgrado e la città gli piaceva molto. Lui non pensava possibile, pochi anni prima, di potersi trovare a lavorare in pace nella capitale dello stato che – proprio nei confronti dei bosniaci – aveva compiuto dei crimini di guerra che si pensava fossero archiviati nelle pazzie della Seconda Guerra Mondiale.

E come lui anche altri operai di altre nazionalità. Erano tutti contenti di aver contribuito alla costruzione di quell’opera che collegava fisicamente due regioni, che permetteva di rendere più semplice il trasferimento verso altre zone meno conosciute dell’est Europa.

In poche parole che annullava distanze fisiche che sono, nel concreto, anche distanze mentali e culturali.

Frequentando alcune pagine Facebook di operatori del settore è fantastico vedere come operatori e impresari della Sardegna parlino in tempo reale con colleghi del Piemonte, della Sicilia, della Lombardia.

Si scambino esperienze, si confrontino sulle tematiche di tutti i giorni.

Così come molti italiani svolgono questo splendido lavoro in Australia: chi nelle costruzioni classicamente conosciute, chi nelle opere di difesa marittima e che inviano tutti i giorni immagini dei loro mezzi al lavoro in contesti dalla bellezza tanto diversa quanto meravigliosa.

Alcuni sono in Svizzera e nord Europa e sottolineano le innovazioni tecnologiche che lassù sono il loro pane quotidiano.

Ma tutti – chi in un modo, chi in un altro – fanno una cosa speciale: costruiscono.

Costruiscono case, scogliere, metanodotti, strade, autostrade. Moltissimi lavorano insieme a persone di altre nazionalità, imparano usanze e ne trasmettono altre.

Tutti insieme lavorano. E il lavoro è il primo e vero ponte che unisce le persone.

Viaggiando per il mondo grazie allo splendido lavoro che svolgo tutti i giorni ho capito una cosa: i problemi di chi lavora seriamente sono uguali dappertutto. Chi lavora seriamente vuole solo una cosa: che ci sia pace e che ci siano le condizioni per poter dialogare con chiunque perché si possa lavorare bene insieme.

Non importa di che colore è la pelle, non importa che forma hanno gli occhi, men che meno in quale strano dio potrai credere: l’importante è lavorare bene e seriamente insieme.

Tutto il resto non conta.

E proprio noi che abbiamo la fortuna di lavorare in un settore così bello e interessante, ricordiamoci tutti i giorni dell’importanza del lavoro che svolgiamo. Per noi e per gli altri.