Svedese di sostanza (parte prima)

Inutile negarlo, anche l’occhio vuole la sua parte.

Ma a volte una valutazione attenta della sostanza, oltre che dell’involucro, può riservare sorprese inaspettate.

Un tempo la comunicazione, soprattutto quella tecnica e in particolare quella del nostro settore, era sostanzialmente riservata a una ristretta cerchia di persone. Soprattutto in Italia.

E l’arretratezza culturale del nostro paese ancora oggi si fa sentire in ben più di un settore produttivo.

La partecipazione a grandi fiere internazionali, soprattutto al Bauma di Monaco, erano l’unica occasione per alcuni di poter vedere e toccare con mano macchine diverse da quelle che solitamente costellavano i nostri cantieri.

Negli escavatori idraulici c’era un costruttore che, dalla lontana Svezia, attirava l’attenzione degli addetti ai lavori del nord Europa per una meritata fama di tecnologia e contenuti ma che, nei confronti degli operatori italiani, non aveva un grande fascino.

Sto ovviamente parlando di quella Aktiebolaget Åkermans Gjuteri och Mekaniska Verkstad (Impresa Akerman Fonderia e Officina Meccanica) che è stata, nel tempo, completamente assorbita dai “colleghi” di Volvo.

Non voglio qui parlare della storia di questo grande costruttore svedese che nacque nel lontano 1898 per poi diventare parte integrante e fondamentale di Volvo Michigan Euclid Group nel 1991. Ci interessano i suoi escavatori idraulici che, nonostante una forma che non piaceva assolutamente agli operatori nostrani, nascondeva in realtà dei contenuti tecnologici di assoluto rilievo e che fecero la fortuna di queste macchine in mercati ricchi ed evoluti come, ad esempio, quello svizzero.

Uno dei primi meriti degli Akerman in realtà era proprio quel design così spigoloso e privo di attrattiva che, però, rimase sostanzialmente invariato nel tempo e contribuì a dare solidità e valore al marchio.

Ma se si aveva la voglia di vedere il contenuto di quel “cofanetto” così sgraziato, si rimaneva stupiti, soprattutto dopo un rapido confronto con i pari modelli costruiti in Italia e che, da un punto di vista dell’immagine, erano sicuramente più appaganti.

Se la cabina era una vera e propria scatoletta, gli interni erano però a livelli ergonomici elevatissimi come da tradizione svedese: sedili ergonomici con tutte le regolazioni che oggi conosciamo, impianto di climatizzazione e pressurizzazione con aria distribuita anche dall’alto e da entrambi i lati dell’operatore, tergicristalli su entrambe le sezioni – inferiore e superiore – del parabrezza , pressioni sonore con valori che si attestavano a 74 dB(A), una grande cura per la sicurezza di accesso sia al posto guida che alle parti meccaniche.

E la sostanza meccanica e idraulica non era da meno.

La duplice esigenza di poter operare in contesti dove la cedevolezza del terreno superficiale era accompagnata da una grande durezza del materiale sottostante, avevano obbligato gli svedesi di Akerman a concepire carri estremamente moderni per l’epoca con grandi superfici di appoggio, baricentro il più basso possibile ma, per contro, con una robustezza a prova di roccia. Fatto salvo per il telaio a “X”, inventato dai giapponesi e diventato lo standard mondiale attuale, la forma dei longheroni sembrava uscita da progetti che altri costruttori avrebbero concepito molti decenni dopo. Alcuni modelli non avevano i rulli di appoggio superiori ma dei pattini con elementi di usura che permettevano di abbassare il baricentro della torretta quanto più possibile.

Ma di questo parleremo ancora.