Ramarri e non

Ho parlato della Hydromac come marchio importante nella meccanizzazione del movimento terra italiano nel secondo dopoguerra.

Una azienda che, oggettivamente, ha fatto molto per l’industria italiana e che, probabilmente, è scomparsa proprio per le croniche mancanze tutte italiane che hanno decretato la chiusura di moltissime altre imprese: troppo piccola per avere un forte potere contrattuale nei confronti dei fornitori esterni, carente in organizzazione produttiva, troppe e continue varianti sulla stessa versione dello stesso modello con evidenti difficoltà organizzative e aumento dei costi del post-vendita, troppo legata al “patron” e alle sue improvvise decisioni poco manageriali, caratterizzata da livelli qualitativi troppo bassi che la costringevano a una costante diminuzione del prezzo di vendita per essere appetibile sul mercato, bassi margini che impedivano ricerca e sviluppo del prodotto, carenze progettuali di base con bracci troppo pesanti e dal disegno costoso a realizzarsi.

Ma non è solo questo.

Parlare di Hydromac a Torino, per uno come me, è come parlare della Juventus.

Sono cresciuto a “pane e Simit” e sono da sempre tifoso indefesso del Toro, con tutto ciò che questo significa in una città come questa.

Chi lavorava nel movimento terra e comprava Hydromac non avrebbe mai comprato Simit. E viceversa. Questi ultimi, con un atteggiamento decisamente snob, in modo ancora più convinto.

Le differenze erano abissali. Da un lato i “verdoni” che “segnavano il territorio” con le loro perpetue perdite di olio idraulico. Tanto che vedere un Hydromac con il proprio colore verde vivo era un evento più unico che raro: le sfumature erano sempre tendenti al nero. Per non parlare delle pozze lasciate nelle soste.

Chi usava Hydromac aveva sempre con se’ un “canister” con olio idraulico e uno con olio motore perché “…non si sa mai…”.

Dall’altro c’erano i Simit con la loro pulizia formale, con i motori Iveco, con il cilindro posizionatore idraulico che li rendeva unici nel panorama internazionale, con le cabine formalmente pulite e allineate agli standard dei migliori costruttori, con i carri ben dimensionati e con i due modelli SL11 ed S15B che avevano decretato la vera fortuna del marchio.

Chi aveva Simit guardava dall’alto in basso chi comprava Hydromac. Spesso chi comprava Hydromac avrebbe voluto comprare Simit.

Nelle trattative, il venditore Hydromac cercava il contatto con il cliente Simit proponendo, a parità di prezzo, un escavatore della classe superiore.

Il cliente Simit non cedeva mai alle lusinghe del prezzo e nel caso in cui questa cosa capitasse (io non ne ho notizia…) si redimeva dopo non aver dormito per tutta la notte.

Il “giallo Simit” contro il “verde Hydromac” era molto di più di un escavatore a confronto con un altro.

Era questione di orgoglio, di blasone, di tecnica, di tecnologia, di qualità, di immagine aziendale, di capacità di potersi muovere in cantieri ristretti grazie alla presenza del cilindro posizionatore. Era questione di tifoseria. Simit contro Hydromac. Toro contro Juve. Punto.

Il classico cliente storico torinese di Simit compra ancora oggi gli Hitachi ZX350 o i New Holland E385C con il cilindro posizionatore per eseguire le scogliere, per i cantieri di demolizione, per gli scavi negli spazi urbani.

Il cliente storico di Hydromac, nonostante viaggi con il BMW X6, oggi compra l’escavatore che costa meno sul mercato.

La differenza fra chi comprava Simit e Hydromac era una differenza di filosofia aziendale.

Chi comprava Simit investiva tutto se stesso nella propria creatura imprenditoriale perché l’azienda era lo specchio del suo modo di essere e di intendere la vita: precisione, impegno, pulizia, immagine, fierezza, durata nel tempo.

Chi comprava Hydromac voleva il massimo rendimento con il minimo sforzo, tagliare al massimo i costi, avere operatori pagati poco “…perché su quegli escavatori vanno bene lo stesso…”, non gli importava nulla dell’immagine aziendale e bastava fare il lavoro.

Se l’imprenditore non era così e comprava Hydromac per iniziare la propria attività, non appena possibile passava a Simit.

Sapevano tutti che i Simit “…erano tutta un’altra cosa…”. Chi usava i Simit poteva anche fare a meno di indossare la pesante “tuta blu” che riparava dalle perdite di olio. La cabina era di solito ordinata e pulita, dalle valvole dei comandi ISO dei manipolatori non trasudava olio…

Eppure il fatto che i “ramarri” non ci siano più mi rattrista.

E il fatto che in Argentina ci sia un’azienda che mantiene vivo quel verde e quel marchio mi rende felice.

Quando andrò a Buenos Aires cercherò nei cantieri il “verde ramarro”…e magari attaccherò bottone con l’impresario di turno spiegandogli che…se avesse comprato Simit sarebbe stata tutta un’altra cosa.

2 Commenti

  1. Sicuramente è vero, valido il discorso delle “tifoserie”.
    Personalmente son sempre stato tifoso hydromac; credo perchè son stati i primi escavatori visti da bambino, davanti al mio terrazzo ricordo gli scavi per strada con il ramarro gommato che lavorava! 🙂 credo sia tutto nato da li!
    Però parlando con un ex collega mi ha sempre detto che erano delle ottime macchine, spacca schiena forse, ma quando le ha vendute si è pentito!! Oltre agli hydromac, aveva anche un rock. anzi…ce l’ha ancora!
    Ciao!! 🙂

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